giovedì 26 dicembre 2013

Cara Claudia,

dell’ultimo natale trascorso al sanatorio ricordo il senso della definitività che agiva consapevolmente in tutte le nostre azioni. Ne perdemmo in spontaneità – che poi, se ci fai caso ora, non è una qualità per cui mai brillammo. Ci avevano raggiunto altre due coppie – persone interessanti che bevevano modiche quantità di vino ma producevano fin troppe parole. Un segno dell’epoca tua: chiunque si sente in dovere di dire tutto su tutto. Eppure, la nascita di Nostro Signore avrebbe meritato parsimonia da parte di tutti. A mezzanotte brindammo alla nascita: da figli dell’Occidente, più o meno prediletti, profanavamo la storia sacra immaginando un nuovo inizio per noi. Da quella data. Cosa che poi puntualmente avvenne. Avvenne quando, interpellata all’improvviso, improvvisamente dimenticasti il mio nome. O quando, seguendo un vezzo culturale, decisi che dovevi immolarti nel nome di Claudia. Fingesti di sorridere proprio quando uno degli amici, non ricordo ora chi…, stava per buttarla in poesia. Ricordo che tentava una sterile comparazione – sia detto per inciso: dalle comparazioni non nasce mai nulla – tra Zanzotto e Celan. Lasciammo fare: nessuno dei due ha mai goduto delle nostre simpatie. Ma – dicesti – non mi sembra l’ora di mettersi a leggere poesie o filosofia. [La singolarità…definiva la filosofia e te stessa.] Pensavo che avrei abbandonato subito il sanatorio, inventandomi il solito festino fuori porta. Ma, la stessa insopportabile situazione mi fece desistere. Fu una prova di resistenza di cui alcuno beneficiò. Certo non tu.

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