mercoledì 30 ottobre 2013

Decidesti,

proprio quando l’ultimo dei tuoi pensieri lo controllasti con un nuovo tipo di acetone, che quella sera era la sera adatta per parlare nell’ordine di vecchiaia, di case a mare e di mani. [Ovviamente mi risparmiai lo sforzo di trovare una possibile relazione tra quelle che – confessasti – erano pure – nel senso di purezza – immagini che ti venivano restituite da quel tizio andaluso che, incontrato sulla strada per la Babilonia, ti sembrò vecchio come quelle case a mare che esistevano ben prima del mare. Poi dicesti: Maestro, ti volevo solo parlare delle sue mani.] Considerando che era sera inoltrata permisi che i bicchieri si riempissero di rosso. Permisi anche alle tue mani di continuare quello che sembra ora uno strano gioco – non proprio occidentale – sul mio corpo. [Il tizio andaluso ovviamente volesti rivederlo.] Simpatico, lo ammetto.

martedì 29 ottobre 2013

Ti presentasti arrabbiata: chi è Claudia?

Sei Tu – Menti – No – Ho trovato questi versi sottolineati: Se il suo nome/ fosse un nome o più nomi non conta nulla… - E dunque? – E dunque qui non si capisce più nulla – In che senso? – Nel senso che non riesco a controllare tutte le cose che ci metti dentro. – A cosa? – A Claudia. – Ma smettila…[ Se il nome/ fosse una conseguenza delle cose,/ di queste non potrei dirne una sola/ perché le cose sono fatti e i fatti/ in prospettiva sono appena cenere./ Non ho avuto purtroppo che la parola,/ qualche cosa che approssima ma non tocca;/ e così/ non c’è depositaria del mio cuore/ che non sia nella bara.] – E allora? – Cosa? – Dammi una spiegazione? – C’è una prospettiva che interseca una diversa narrazione. Un po’ poetica e un po’ stupida: in prospettiva i fatti sono cenere. Anche questi.- Sbattesti la porta. Mi sembrò un gesto volgare.

L’Occidente,

dicesti con poca fantasia, è la terra che osserva il suo tramonto. [Intendevi restituire un’immagine epocale…certo non proprio originale: l’Occidente è, per definizione, il luogo del tramonto e dell’aver coscienza del tramonto. L’osservare, dunque, non è un atto volontario dell’osservatore ma la necessità dell’accadere di un evento…] Non so cosa c’entrasse questo con l’incipiente autunno. [Immaginavo essere questo il risultato di parole che andavo rimuginando da tempo e che costruivano una diversa narrazione del nostro passato. Una narrazione che sostituiva quella narrata fino ad allora…E, la cosa non ti sembrerà strana, vera come la prima.] Una narrazione che, nella sua banalità, introduceva qualcosa di istantaneo nel destino di un’epoca: il noi sarebbe dovuto tramontare? E in quale forma specifica sarebbe avvenuto il suo tramonto? Era in gioco la nostra volontà o l’accettazione di un processo che ci conteneva e al tempo stesso, di noi, se ne fotteva? E perché le tue parole e le mie solitarie domande? E’ questo autunno – dicesti non senza solennità – che sta giocando contro di noi…Francamente non ero intenzionato a ascoltare di più. La situazione andava consegnata al passato…

lunedì 28 ottobre 2013

Novembre…

Non sorprese nessuno dei due. Doveva arrivare perché – malgrado tutto – il tentativo di sottrarsi alla tirannia della cronologia può interessare un letto sfatto in un basso non certo un calendario. [Non ci furono particolari preparativi né parole definitive. Preferivamo il Montale del “Diario” ed è tutto dire: “Non si procede: muoversi/ è uno strappo.] Uno strappo che non potevamo permetterci e certo non paragonabile alle tue calze smagliate…Certo: da un lato la possibilità di distruggere quel tanto che ci avrebbe permesso qualcosa di nuovo; dall’altro tutto il fascino lascivo e voluttuoso di una calza rotta. Ovviamente scegliemmo il secondo lato del giradischi; senza sorpresa. Già, “Senza Sorpresa”, scrive il poeta: “Ma sopravviene ora/ la riflessione,/ la triste acedia su cui tanto conta/ il genio occulto della preservazione./ E allora si saluta…” Arrivò, dunque, novembre e tu, a modo tuo avevi vinto. E pazienza se “hanno perduto tutto gli ascoltatori.”

domenica 27 ottobre 2013

Intorno ai fessi.

Ripensavo a quando, quasi inquisito sulla strada che portava a una strada per una chiesa…al Plebiscito, chiedesti una possibile classifica. Risposi: “Potrei stilarti una classifica dei fessi incontrati. Dal risentito, all’invidioso, al fallito…Ma la classifica dei mie scrittori proprio no.” Iniziasti a parlare dei dentifrici usati da bambini e io inizia a parlarti di Morris Sabbath: un vecchio e maltrattato burattinaio…che, all’epoca, avevo incrociato mentre impegnavo qualcosa del tempo con l’amatissimo Proust. [Inventai improbabili relazioni che per fortuna ho dimenticato.] Ti raccontai di una scrittura sublime che il vecchio teatrante avevo imposto al suo autore; allo stesso modo del periodare dell’io alla ricerca del tempo suo nell’atto di dettare le mancate virgole all’io che scrive la “Recherche”. Avesti modo di chiedere: “Ricordi tutto?” [All’epoca ero un giovane, modesto nell’uso improprio della sua memoria volontaria.] Non risposi. Oggi aggiungerei: parecchi fessi – per addizione non per accumulazione – mi è capitato d’incrociare. Profaniamo una frase di Ungaretti : “nel mio cuore nessuna croce manca”. Ecco: io ai miei fessi ci sono legato e nessuno verrà dimenticato.

Mi fai notare:

“A raccontare romanzi d’altri…s’invecchia Maestro!” Ovviamente i sospensivi li introduco io per mimare – se solo potessi – il tuo tono canzonatorio. Chiedo notizie di questi “altri” ma tu inizi con il racconto della tua vita di ora. Tutto nella norma: i tuoi stanno bene ma acciaccati, qualche capello bianco che sopporti con ironia, le tue nuove letture che sono stupide come le vecchie, e quel “Diario fenomenologico” che ti regalai nel tempo della preistoria ma che leggi adesso. - Perché? – Perché mi sembra un buon antidoto per questo incipiente novembre. – Ti dici affascinata dalla differenza tra l’originario e il barbarico. Certo, aggiungi, il secondo resta in- attingibile alla ragione mentre il secondo è il prodotto dell’epochè. [Sono incline a pensare, oggi, che i due termini sono interpretazioni del nostro passato prossimo o remoto. Solo questo…] Non accetti quella che ti appare una riduzione storicistica e mi richiami a vecchie teorie o vecchie storie metropolitane. Ma, pure ti accorgi che non ho voglia. – Cos’hai? – Niente. – A raccontare romanzi d’altri s’invecchia, Maestro! – Staccare ci sembra un ottimo compromesso: stacchiamo.

venerdì 25 ottobre 2013

Su una poesia di Montale.

“Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi” . [E’ qui che lo scrivente scopre l’impossibilità di ogni discorso che traduca in parole la gestualità dell’eterno. Lo feci un solo attimo: mi inginocchiai ai tuoi piedi come il cristiano ai piedi della Croce. Lo feci da uomo postumo. Vediamo un po’: ai tuoi piedi stavo inginocchiato. E’ lì che non mi sono sottomesso al mondo, è lì che ho intravisto “nulla di te”. Solo i tuoi piedi. Come il primo cristiano che atterrito dalla possibile presenza del volto si accontenta del nulla del Cristo. Vediamo un po’: i tuoi piedi come estrema immagine non di qualcosa ma del “nulla di te”. Come il primo cristiano che sa che nel venerdì santo quei piedi sono il segno di nulla non di qualcosa. Vediamo un po’: la necessità – non il desiderio o la voglia – d’inginocchiarsi ai tuoi piedi come segno inequivocabile del nulla di te. Andrebbe detto – e il poeta perdonerà la licenza – se era nulla di te era già qualcosa. Se era il nulla di Cristo…era già troppo per il primo o ultimo cristiano.] Scrive Montale: “Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi/ o forse è un’illusione perché non si vede/ nulla di te/ ed ho chiesto perdono per i miei peccati/ attendendo il verdetto con scarsa fiducia…”

Ci toccò –

quasi fosse un lascito di una vecchia ereditiera – leggere, ognuno per conto suo, quei passi straordinari che Musil dedica alla “meraviglia”. [Mi viene da pensare a quei tanti fessi che si sono legittimati leggendo quarte di copertina e bignami risparmiandosi lo sforzo della lettura. E ne conosco tanti…] Volutamente ti evito strazianti citazioni e mi soffermo su quel giardino dove gli amanti gemelli continuano a dirsi cose nascondendosi la cosa del loro amore. Per quanti anni? Ma quel giardino, che ora mi pare di ricordare, sarà mai esistito almeno nella mente di Musil? Mi evito lo sforzo di andare a controllare. Eppure il libro sta qui, sul tavolo della mia scrivania e sono certo che il segnalibro mi condurrebbe proprio lì…Ma desisto. [E’ una strana lotta che ingaggio con la mia memoria volontaria…Forse è solo la volontà di segnare la distanza tra la meraviglia terrorizzante che ancora sei e il mio anestetizzato ricordo. O forse, il tentativo inutile di non interrompere la tessitura che la Dea Abitudine con solerzia costruisce da quando, in quel giardino, enumeravi cose per distrarre i tuoi capelli dai miei occhi.]

mercoledì 23 ottobre 2013

"E se la mia giacca sarà..."

Il Barocco, nelle sue classiche interpretazioni, appare come un’epoca di declino. La finzione inizia a costruirsi nel momento in cui si decide che decadenza non è un termine negativo. Si dà un decadere che è un venir meno di tutto ciò che è stato precedentemente. Nell’atto stesso di questo venir meno indubbiamente si è colpiti da sgomento. Smarrimento: ciò che aveva un senso ora tace. E’, propriamente, il suo tacere per sempre. Vedi, la possibilità di resuscitare ciò che è investito dal declino ci è preclusa. E questo, Claudia, non è un male. Ci sono stati anni di sintomi che non abbiamo colto. Ma, trattandosi solo di sintomi potrebbe dirsi: non ci sono stati sintomi che indicavano questo presente. [La decisione che elimina la negatività è, ovviamente, il decidere dell’uomo che ha fatto, già da tempo, i conti con la morale senza perderla. Insomma, volendo banalizzare: non è una decisione che i fessi possono permettersi.] Che i fessi non sono pochi e che non vadano sottovalutati anche questo lo mettemmo nel conto…Quando, indecisi sul nostro futuro, evitammo di dire parole. Ricordo che avevi già deciso la direzione. Anche io la mia.

lunedì 21 ottobre 2013

"Con frasi un po' ironiche e amare..."

Storicizzare il Barocco – come pure tentasti di fare – assegnargli un posto nel tempo e esprimere poi un giudizio non fu un’operazione neutra. Implicava la tua ferma volontà a definire come decadente un’epoca che pure avevo vissuto. E fin qui eravamo d’accordo. Il problema si presentò nella sua caratura aporetica quando nascondesti in quel giudizio la tua paura e il tentativo – consapevole – di sottovalutarmi: pretendevi dal Barocco la resa totale. Ovvero l’impossibilità del suo ripresentarsi. Ne ammettevi il suo essere accaduto ma non volevi concedere la remota possibilità di una sua rinascenza. Sporgenza – si sarebbe detto un tempo. Il suo affacciarsi dalla latenza che lo conteneva…Mostrarsi dal buio della decadenza nel quale pure era stato scagliato. Da me. [Ma, ben presto ti toccò non accettare che il Barocco – qualunque cosa volesse significare – si sottraeva alla tua e alla mia potenza. Propriamente: non dominabile. Il suo stare alla periferia dell’Occidente era, dunque, un fatto momentaneo e, se vuoi, banalmente casuale.]

domenica 20 ottobre 2013

Ignori...

...La dimensione mistica che innervosisce il tuo Occidente. Non è qualcosa di irrazionale o diversamente razionale né il significato letterale della Croce. A proposito: dove sta la lettera e dove l’interpretazione della Croce?...Potrebbe trattarsi di segmenti che costituiscono l’Occidente ma che ora sono poco visibili…ci crederesti? Penso di no. O forse vecchie litanie – citiamo giusto frate Dolcino che fa sempre bella figura vista la rosa nel suo nome… – che a furia di ripeterle hanno squarciato il sepolcro della Ragione…O forse la Ragione di Hegel che combatte l’intelletto razionalistico di Kant…O forse solo un gioco. Il mio. Sono altre, lo so, le cose che ignori. Non ti dolere per questo…

Caro Maestro,

sei un baro: “Il senso della fine” te l’ho consigliato io, non molto tempo fa. Quando a p. 56 scrive: “Un inglese una volta ha detto che il matrimonio è un pranzo interminabile con il dolce servito per primo” , ho pensato che potesse essere una buona giustificazione per la nostra solitudine. Ho pensato anche che tipi come Adrian ne abbiamo incontrati parecchi, al “chiostro di sopra”, ma non ci hanno mai veramente impressionati. Di “violazioni” pure ne abbiamo parlato ma felici di non averne subito almeno l’irreparabilità. Ti scrivo oggi perché “Ogni giorno è domenica” ma non ho più l’età per invocare il mio Leopardi…Figurati tu. Ti scrivo come si scrive in un vecchio romanzo di Marquez…uno di quelli giustamente dimenticati. Ti scrivo perché il tuo passato remoto è maledettamente remoto. Anche il mio. Certo, non sfuggirà a te, l’attualità della memoria o la necessità di dialogare con un Tu. Non uno qualsiasi. Scrive il tuo Montale: “…E’ pur nostro il disfarsi delle sere.” Stai bene. P. S. Non aggiungere parentesi quadre e trattini. Claudia.

XIV. Cara Claudia,

leggo “Il senso di una fine”. Come ai vecchi tempi centellino pagine che mi piace rimuginare a lungo. [Ricordo i nostri pomeriggi domenicali…Napoli si svuotava improvvisamente e noi camminavamo in silenzio. Ricordo la mia ansia nell’attenderti su una panchina di legno e il tuo viso accigliato mentre scendevi dall’autobus. Già, la mia ansia. Era il sintomo – dicevi – di un amore ingestibile. Non sorridevi, assorta nei tuoi pensieri stavi con la tua ansia autunnale…scomparivi in vicoli che sapevi solo tu. Non ti ho mai cercato. Mai come adesso.]

venerdì 18 ottobre 2013

Dici...

...che non ho ragione. Ma sei stupida: non sai che i vecchi torti sono peggio dei nuovi. Ti vedo a rammendare – con ago e cotone – quelli che a conti fatti sarebbero i miei sbagli. Ti sbagli: hai poco cotone a tua disposizione e l’ago – ogni volta che si parla di me con me – quasi trema nelle tue mani. Ti vedo mentre ti racconto una storia che narrava mio nonno – quando con la sua settimana enigmistica fumava morbido e italiano e della guerra – la seconda – non volle mai parlare. Per la prima non era ancora nato. Come vedi mi sono incartato con i trattini. Mentre il mondo – che pure troverà posto in questo mondo – gira di soppiatto sotto le tue finestre.

Quando:

“l’origine è apocalittica come la fine”. Al centro – quasi a legare i due termini – c’è la narrazione: frutta fresca di stagione, vino a temperatura ambiente e stanze umide. Il mio hegelismo di ritorno corresse le tue letture: all’inizio c’è la narrazione dell’origine e della fine. Che il tutto, poi, sia un processo apocalittico andrebbe dimostrato. Intesa come ri-velazione improvvisa o attesa, certo l’apparizione della Bellezza e la sua assenza sono abissali apocalissi…[Qui – aggiungesti – stiamo scivolando su un febbrile fondamento. Qui andrebbero interrogate le anime. Poi dicesti: troppo difficile…interroghiamo i corpi.] Sorridevi.

giovedì 17 ottobre 2013

Complicanze.

Raccontasti una diversa versione. Ti giustificasti: “sulla strada per Creva forse dimenticai la verità”. Avendo a disposizione solo la tua versione quel “forse” ci sprofondò nell’assoluta confusione. Che bisogno avevi di confessare la tua stessa confusione? Non sapevi dire bene cosa accadde su quella strada. Perché dircelo? Perché rovinare la fede che pure – solida – ci tratteneva al tuo dire? E se fosse stata la nuda verità identica alla tua versione…che divenne diversa perché introducesti quel “forse”? Dicesti: “forse è solo il mio modo di convocarvi…o forse la mia paura a dire la verità”. Offristi insomma un’alternativa su un fondamento che non esibiva la sua legittimità. Restammo in silenzio.

mercoledì 16 ottobre 2013

XIII. Cara Claudia,

filosofia era allora il fondamento dell’accadere di ogni cosa: dei tuoi mercatini babilonesi, di una canzone di Tenco, di una partita dell’Italia, di un basso ai Tribunali…Filosofia insonne: desta l’attenzione sul senso di ogni accadimento. Vitale la sua funzione: tutto quello che si doveva apprendere “accadeva” in una dimensione comunitaria. Che era quel “noi” – di cui tanto parlavano i nostri libri – fondativo di un io e un tu. La scena, l’avrò ricordata milioni di volte: eri vestita di verde. Era accaduto qualcosa di particolare e tremendo. E tu te ne stavi a prendere il sole appoggiata al muro esterno del mio basso. Durò tutto pochi minuti. [A pensarci oggi, toccherebbe ammettere: quell’estraneo sentimento – per mesi…pochi – trattenuto nei nostri pensieri…esplose riducendo a cenere il passato. Colpa, certo dei tuoi neri capelli.]

martedì 15 ottobre 2013

Piazza Dante incrociava i nostri pensieri.

Luogo d’apparizione e separazione. Luogo di saluti e attese. Una volta, ma potrei sbagliarmi, passammo un intero pomeriggio a parlare con un poeta argentino. Uno dei tuoi ultimi acquisti. Acquistato a una svendita. Ne sono certo: anche la panchina si ruppe i coglioni delle sue litanie. Tu, poi, non ne parliamo proprio: quando ammise di non conoscere Montale, la tua pazienza democratica ebbe un crollo: “Sei solo bello…” Il poeta s’emozionò ma era solo il tuo modo per congedarlo. Non me la presi. Non me la sono mai presa. Lui non se ne accorse. E non credo che Montale abbia mai lamentato la sua assenza: “Attendo un cenno, se è prossima/ l’ora del ratto finale…” Quell’ora non è mai scoccata. Direi meglio: la tua ora non coincise con la mia. La mia, adesso, non coincide con la tua. Restano le panchine a piazza Dante. Resta la fermata dell’autobus. Resta “il nulla che basta a chi vuole/ forzare la porta stretta…” Chi vuole?

lunedì 14 ottobre 2013

[...]

Nella piazza, affollata di gente, ci stavamo come la pioggia. Pretendesti un immediato ritorno a casa. Rubasti un mio rosso maglione che ben presto non poté ripararti da tutta quell’acqua. In pegno lasciasti il mio armadio a custodirti i libri. C’era un concerto – sai chi se ne fotteva – e stemmo di nuovo in piazza. Ricordo un sacco di amici…e tu: “Sei affabile con tutti…è colpa mia”. Ricordo il tizio della libreria. Ci volevamo solo riparare ma alla fine non so più cosa comprammo. Ricordo, infine che entrammo in una chiesa. Scrive Montale: “La bufera che sgronda sulle foglie/ dure della magnolia i lunghi tuoni/ marzolini e la grandine…” La vita ci sembrava un posto sicuro dove stare.

domenica 13 ottobre 2013

“Il destino è il verbo dell’assoluto”.

Il tuo ultimo regalo: A. Emo, “Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973”. Avendo coscienza della definitività della situazione, scegliesti un libro che – almeno nelle tue intenzioni – avrebbe dovuto incrinare la mia fede nell’attualismo. [Ormai di tutto incolpavi Gentile. Sembravi e eri ridicola e bella. Fu allora, credo, che iniziai a porre la stupidità come pre-condizione dell’apparire del Bello…]. Ti eri premunita: scegliesti un “allievo” di Gentile per scavare nella purezza dell’atto…Quale atto? Comunque, dolce Claudia qui si voleva solo citare un passo del tuo Emo. Questo: “Una lettera è un dialogo con una assenza (monologo che diviene, che si scopre dialogo). E’ un missile teleguidato da una assenza e che la insegue. Anzi è l’assenza stessa che diviene presenza, dando la sua forma indefinibile al monologo della lettera”. Mi sembrava giusto ricordare, oggi, queste parole.

Mia cara,

C’è stata poi una Montagna che si è fatta discorso: “La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso…” Malgrado l’apparente chiarezza qui ci scontrammo con la parola irrisolta. L’occhio puro permette al corpo di stare nella luce, l’occhio malato lo condurrà nelle tenebre. Il nesso occhio-corpo restava velato; avremmo preferito: l’occhio chiaro permette alle cose di stare nella luce. E poi: cosa accade al corpo quando sta nella luce…e quando abita le tenebre? Provammo con rudimentali strumenti: l’occhio chiaro è l’occhio illuminato dalla fede in Cristo; in questo modo tutto il corpo sta nella stessa luce. Ma le domande restavano come all’inizio inevase. [ Si dovrebbe aggiungere che il tutto accadde di notte. Il tuo corpo – come sempre – aggirandosi nervoso tra quesiti e dubbi illuminava tutta quella oscurità…Non so ora se fui blasfemo o eretico a credere di aver visto un corpo stare nella luce. Il tuo.]

venerdì 11 ottobre 2013

XII. Cara Claudia,

eredito da via Diocleziano una sana allergia alle versioni in prosa, alle spiegazioni, al fare esempi. Questi i versi di Forst: “Nel cielo un orologio illuminato/ Proclamava che il tempo non era né giusto né errato./ Io sono uno che ben conosce la notte.” Fummo condotti a questi versi da Borges ma, ben presto, non ci accontentammo del suo commento. Ricordavo questa nostra notte, mentre un amico – certo uno dei migliori – chiedeva conto di questa – che a detta sua – è una sorta di svolta intimista…Si riferiva a questo mio scriverti e alla possibilità di legare il tutto a quel tanto di attività politica che pure svolgo. Essendo lui una persona intelligente, ho preferito restare in silenzio mentre la memoria m’impastava la bocca con questi versi e quella notte. Pure pensavo, nel mio silenzio, che la politica è da considerarsi come la notte citata dal poeta, una notte che necessita di un orologio illuminato. Facciamo il punto: l’orologio – illuminato – non illumina la notte: dice che il tempo non è né giusto né errato…non offre valori alla politica…ma offre un punto che lo sguardo dell’uomo abituato alla notte guarda…Allo stesso modo di come io guardavo te.

E dunque Sabbath neanche quest'anno riceve il nobel.

Considerando il personaggio non gli sarà dispiaciuto. Certo, la recita per accogliere il premio ce l’ha pronta da secoli. Sempre la stessa: il suo medio che invita le signore della giuria e del pubblico a slacciar-si il reggiseno. Ma, caro Morris, considerando l’età delle suddette signore avresti dato vita non a uno spettacolo decadente ma alla messa in scena della decadenza stessa. E la Svezia non appare il luogo adatto a recepire siffatte verità. Che poi – a dirla tutta – non lo meriteresti nemmeno: uno che non ha fatto nulla per Israele non si capisce – in Svezia non si capisce… – cosa mai abbia potuto fare per la cultura…Ma questa è polemica vecchia. Piuttosto: uno che nella migliore delle ipotesi ha ucciso Nikki, costretto al lesbismo la sua seconda moglie, istigato ragazzine a sconce litanie…e Drenka?...Quello è un altro discorso. Insomma uno così – barba bianca e mani deformate – tu ce lo vedi con l’aureola del santo letterato che ha da dare consigli a qualcuno? Io no. E così, da modesto lettore, anche quest’anno applaudo la giuria svedese: hanno fatto bene. Le vite che hai rovinato – anche quelle future – è già un ottimo risarcimento per i tuoi pensieri. La tua poetica, poi, è inesistente. Nel senso letterale: un pensiero su tre lo dedichi all’inesistenza, alla morte. E dunque, sei un fenomeno da baraccone che va mostrato con cautela: sei quello che la civiltà rinnega quando si compiace dei suoi valori civili. Insomma, sei solo il vecchio burattinaio M. Sabbath. [Considerando le persone civili…non mi sembra poco].

giovedì 10 ottobre 2013

Scopristi...

...“La morte di Virgilio” e il tuo profondo senso democratico pretese che si parlasse solo di questo. Fu un’estate torrida e mi accontentavo – tra lettura e tuoi monologhi – di riscaldarti i piedi. Lasciavi fare. [Era il tuo modo di lasciar fare il passato…La tua voce, nitida, sembrava un elemento ereditato dalla stanza dalla prima palafitta. Quando te lo feci notare, rispondesti con gentilezza: “La tua gentilezza, oggi, fa quasi pena…vai meglio con le mani”.] Ne possedevo una prima edizione che mi guardai bene dal regalarti: mio padre non avrebbe capito. Fu il massimo che riuscii a fare, per il resto toccò prestartela e a te sottolineare quello che ti sembrò opportuno. Cose del tipo: “Non sanno che ogni abbandono d’amore è sempre un abbandono alla morte”. Eri stupida – come sempre: non ti accorgevi che Broch stava solo parlando di noi.

martedì 8 ottobre 2013

Normalità.

Bevevamo campari soda. Perché la marca nuova ti piaceva. Abbiamo impegnato intere esistenze. Scomodato l’intero passato del mondo. Girato con i nostri occhi mercati e chiese. Abbiamo investito l’Occidente con il nostro Destino e con le nostre parole abbiamo sempre e soltanto parlato di noi. Abituati a spazi angusti. Stretti. Quasi normali...

lunedì 7 ottobre 2013

Ammettesti di non aver capito.

Ma non sei disposta, ora, a confessare un innocuo fastidio: Barocco, Occidente, Distinzioni…non ti sembrano parole adatte a nominarti. Anzi, con questi termini misuri la mia lontananza da te. [Ma questo è quel poco che non confesseresti neanche sotto tortura.] Della tua eleganza, già abbiamo detto. Tocca aggiungere, adesso, il lato sinistro della tua personalità: il tuo totalitarismo. Che è, a conti fatti, la saputa necessità a essere guardata mentre attraversi i tuoi mancati risarcimenti di tempo…

Dicesti...

Che bisognava distinguere. Dicesti anche altre cose. [Mi accorgo – ma lo sapevo già – che la distinzione è una delle tante finzioni che l’umanità usa per giustificare i suoi peccati.] All’epoca mi dedicavo al neomelodico: uno studio preciso e filologico perfetto…A ripensarci ora poi mica mi sembra giusto mettere gli invidiosi nel Purgatorio. In Paradiso toccherebbe metterli: almeno lì avrebbero la scusa d’invidiare Dio. [Ti dicevo prima che una filosofia che non si fa interrogare dalla figura di Cristo, da quel benedetto – maledetto venerdì santo, dipende dai punti di vista, è una filosofia dell’ottimismo che non serve a nessuno. Almeno non serve all’ora nona di una qualsiasi vita…] Ma la questione è e resta la seguente: posto il Barocco nella sua decadente essenza ti sembra possibile giustificare le tue distinzioni…? Ci vorrebbe un atto di fede. [Cosa che al momento, lo scrivente, si risparmia per altre Croci.]

domenica 6 ottobre 2013

XI. Cara Claudia,

facendo il punto, qui, nell’ordine si discute della distruzione del passato, del senso dell’Occidente, e di te. Senza spiegazione per i fessi: questo è il concreto e ogni singolo elemento è spiegabile solo alla luce della sintesi che lo fonda. Alle spalle di tutto ciò, oggi riesco a vedere una nostra infinita discussione sul significato del Barocco. M’impegnavo – certo con poca fatica – a dimostrare che quella non fu un’epoca di decadenza… A un certo punto – sarà pure stato tardi e pure avevi voglia di fare altro – accarezzando un invecchiato libro di Croce, che ovviamente non avevi letto, decidesti che toccava finirla lì: “Maestro, risparmia le tue giustificazioni per altro…” [Sperando di essere frainteso e certamente non capito: sei il nome che assume l’Occidente quando scopre in atto la sua stessa distruzione. Quando i valori perdono valore, quando le parole costruiscono altre parole, quando gli dei abbandonano la terra lasciandola desolata…si apre la necessità di pronunciare un nome. Il tuo…Che nulla spiega e nulla giustifica. Solo a trattenere quel tanto di storia che non va distrutta…] Quella sera si parlò anche di Cristo.

sabato 5 ottobre 2013

X. Claudia,

che poi diciamocela tutta: l’eterno ritorno dell’uguale – ora che tragedia, Apollo, Dioniso e altri sono morti sotto il peso immane di questo presente – serve a quelli che s’impiccano a nostalgia – melanconia…e cose varie. Sai bene, che qui, se si scrive di te – con queste virgole parentesi e punteggiatura avariata: [ qui lo si fa perché, in fin dei conti, noi dell’eterno ritorno dell’uguale non sappiamo che farcene. Si scrive perché il tuo Occidente è morto e tu non te ne accorgesti e ti dibatti tra un nuovo presente e un possibile futuro – solo possibile. Qui si sta col tuo nome: e mentre – invano – ti dibatti fra il niente e l’essere – tu che distogliesti troppo presto lo sguardo da Parmenide – tu che ammetti in silenzio la tua stupidità – tu che alterni in ritardo l’errore che commettemmo su una panchina…ecco pioveva. E ora che parola tace la quadra pure toccherebbe chiuderla. Ma non ho voglia…

IX. Mia cara,

ieri mi è toccato – per altri motivi – passare per via Diocleziano. Oggi, causa pioggia, ritrovo – dopo averlo cercato per ore – uno stupido passo di Hamsun: “Ditemi, solo per questa volta: che cosa, ad esempio, ho fatto o detto in quest’occasione per dispiacervi? Forse saprei come comportarmi in futuro.” La sottolineatura orizzontale mi dice che fu opera tua. [Le mie, per risparmiare tempo, sono verticali…] Lo leggesti più volte. Ridevi. Chiedesti: cosa ho fatto per dispiacerti? L’occasione non la ricordo…forse era semplicemente il tuo solito desiderio serale: scendiamo al centro? – o forse qualcosa di più acuto che nulla aveva a che fare con la mia pigrizia. Penso di aver taciuto o al massimo sorriso. Oggi che quella domanda risorge da un luogo opaco, da un libro che non piacque a nessuno dei due ma che volesti regalarmi perché pure lo si doveva leggere, ecco: a rivedere oggi – intatta – quella stupida domanda… “tremo ancora di una strana tensione….”

giovedì 3 ottobre 2013

VIII. Chi è Claudia?

Mia cara, al piano si respirava una malsana curiosità: chi è Claudia? [Andrebbe citata la funzione del correlativo oggettivo nelle poesie – non poetica – di Montale. Ma, un briciolo di pudore o senso del ridicolo qui ancora ci resta.] E dunque: sei il Tu che si dibatte in ogni nome proprio…quello che soggiace in ogni parola…il tormento di uno sguardo che non si appassiona ai paesaggi…un indirizzo nascosto nella mia tasca sinistra…il passato remoto delle mie parentesi quadre…sei un rimorso perduto su una strada per Creva…un maglione rosso comprato e rubato nella fiera di Babilonia…un pomeriggio di Davos: si stava sulla porta…sei, anche, il necessario riferimento di un Occidente oramai stanco…sei una poesia che non si fa poetica. Certo, sei anche mani e capelli neri.

I. Parricidio.

Confesso il mio disamore per Freud. Comunque lo si cita perché il saggio che precede i “Fratelli Karamazov” è, anch’esso, un classico: “Hai voluto uccidere il padre per essere padre tu stesso: adesso sei padre, ma il padre è morto”. [Traduzione: Alfano, adesso sei padre, ma il padre è morto.] Scrive Dostoevskij: “In tal modo Tu stesso hai posto i fondamenti per la distruzione del Tuo proprio regno, e non puoi darne la colpa a nessun altro”. [Traduzione: Berlusconi, hai lavorato per la distruzione del tuo regno politico…] Dal che si evince una cosa molto semplice: per esserci un parricidio ci deve stare un “padre morto” – politicamente è ovvio. Al momento questo non c’è.