sabato 4 gennaio 2014

Le élites e i partiti politici.

Per Carlo Galli (2012) il contrassegno negativo delle élites italiane è “il particolarismo, cultura vuota ed esornativa, apoliticismo oppure scarsa lungimiranza politica, illegalismo”. Contrassegnate in questo modo – potrebbe giovare un confronto con “L’eclissi della borghesia” di De Rita e Galdo (2011) – si giustifica la riluttanza delle stesse non tanto a esercitare una funzione direttiva quanto a esercitarla mirando a soluzioni utili per il Paese. La diagnosi esprime una piaga italiana: se per costituzione le élites s’interessano solo e esclusivamente al bisogno corporativo, esse rappresentano un ostacolo per la tangibile efficacia del sistema democratico. Fin qui nulla di nuovo. Verrebbe voglia – solo per celia – di complicare la situazione descritta: cosa accade quando i gruppi dirigenti dei partiti politici si costituiscono e agiscono come l’élites poc’anzi richiamate? Chiariamo: la storia italiana ha conosciuto corporazioni che di volta in volta scelgono o non scelgono rappresentanza politica in base a interessi particolari. Ma, la storia degli ultimi vent’anni ha dimostrato che i partiti politici – che per definizione dovrebbero mirare a costruire proposte condivise – hanno agito nella pratica come corporazioni interessate solo al bene della singola ditta. Insomma se il partito è diventato ditta il passaggio ulteriore è naturale: ogni ditta si è giovata di un suo cerchio magico che ha lottato per la sopravvivenza e per l’espansione della ditta non del Paese. Se il partito ha volontariamente abdicato alla sua funzione: proporre un disegno valido per l’Intero non per la Parte è ovvio che il termine adatto per definirlo non è ditta ma Casta. Non una delle tante: ma le poche che hanno la responsabilità di guidare il paese a tutti i livelli. Come siamo stati guidati e amministrati conviene tacerlo per bontà di Patria.

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